Prima o poi si perde, nella vita o nel calcio. La sconfitta non è sempre un male. A volte è indolore, a volte insegna, altre è un semplice incidente di percorso. Spesso è l’interpretazione che si ha di essa a fare la differenza. Capiremo già sabato come il Napoli scriverà la sua prossima pagina, in che modo la volterà. Gli azzurri sono caduti al Maradona, non accadeva da circa un anno (22 aprile 2022), senza trovare nemmeno la via del gol – e in gare interne non si verificava da esattamente dodici mesi (6 marzo 2022). Lo hanno fatto per mano di una Lazio che ha giocato una partita ai limiti della perfezione, conscia dei propri limiti e soprattuto dei punti di forza degli avversari. La vittoria è spesso più nel sapere dove l’altro può farti male che viceversa.
Ed è stata la vittoria di un uomo, una lezione di tattica applicata da università del calcio. Napoli salutò un Sarri dogmatico sino al midollo, ne ha ritrovato uno fluido di un’antichità sempre più obsoleta nel pallone moderno. Erano gli anni del sarrismo, manifesto dell’estetica calcistica, quando il parametro della bellezza scomodava la priorità dei successi, travisando lo scopo ultimo di questo sport. Accade tutt’oggi, come se a correre i cento metri, più che tagliare il traguardo per primi, conti la leggiadria della falcata.
Il Comandante si è ricreduto, o forse, semplicemente, si è liberato di quelle strutture che fanno male al calcio e tanto gli hanno sottratto nel tempo. Scudetti, panchine blasonate. Uno contro uno, raddoppi, marcatura a uomo, contropiede, Vecino fuori ruolo per sfruttarne il dinamismo. L’ha vinta così il tecnico di Figline, come fosse di Livorno.
Dimostrando, dimostrandosi e dimostrandoci che Caressa, nei salotti Sky, aveva ben ragione ad affermare “il possesso palla non è una statistica” contro l’esaltazione dello stesso fatta da Bucciantini. I biancocelesti hanno tenuto la sfera per il 35% del tempo effettivo, sfiorato un gol clamorosamente evitato da Di Lorenzo nel primo tempo, spaventato Meret in un paio d’occasioni, trovato la rete e colpito una traversa. Il Napoli ha avuto il doppio del possesso e la metà di opportunità.
Gli azzurri sono stati una delle peggiori versione della gestione Spalletti. Scialbi, lenti, nervosi, frettolosi. Sarri ha incatenato Lobotka, Kvara e Osimhen, e incartato la partita. Per sbloccarla era chiesta pazienza e circolazione veloce, iniziative individuali, non c’è stato nulla di tutto questo. Il Napoli non è mai entrato in partita, è stato estromesso da essa e si è estromesso da solo.
Sembrava Ivan Drago a Mosca, sorpreso da quel pugile che aveva già battuto, quel Rocky che incassava da Dio e colpiva, e faceva anche male. Com’era possibile, doveva fare la fine di una mosca spiaccicata dal guantone.
Gli azzurri sono entrati sul prato col telo da mare e gli occhiali da sole e hanno trovato temporale, non hanno saputo reagire in alcun modo, né da singoli, né da collettivo. Il gol di Vecino al 67esimo – uomo del match – ne è fotografia, squadra spaccata in due da una transizione, ricerca affannosa dell’area, rinvio sconsiderato di Kvara, uscita in ritardo della difesa. Altre sequenze ci ricordano i passaggi sbagliati del georgiano, la tensione di Osimhen, l’anonimato di Anguissa.
Ha provato a cambiare nel secondo tempo Spalletti inserendo prima Politano ed Elmas, poi Simeone e Ndombele, passando al 4-2-4. Ma ha sbagliato anche lui, intasando ancor’ più gli spazi controllati magistralmente dalla Lazio e privandosi di Lobotka. I minuti sono scivolati lenti come il Tevere che trasportava i tre punti agli avversari, e una vittoria che li mette al secondo posto in solitaria. In attesa di Milan e Inter, della decisione del Collegio di Garanzia che deciderà sulla Juve. Il Napoli resta a +17, potrebbe essere un +15, un +12 in un caso che ci sentiamo di escludere. La distanza resta incolmabile.
Così come un resta una notte storta. Onore a Sarri, onore ai vinti, che avranno modo di crescere ancora grazie ad una sconfitta che non conta a nulla sul campo, ma tanto negli spogliatoi nei quali sarà analizzata.